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lunedì 2 settembre 2013

Farsi mettere in bocca le parole altrui. La lingua come arma


Gli italiani sono davvero bravi a farsi mettere in bocca parole altrui. Parole che sono perlopiù giudizi precofenzionati, atti a creare luoghi comuni. Parole che non aiutano a riflettere ma che disegnano una realtà già data, senza che si debba far tanta fatica a comprenderla, impigrendo nell’eloquio, ma ancor più nel pensiero già massivamente atrofizzato dalla sottocultura imperante.

Così Bill Gates riempì le guide in linea dei prodotti Microsoft del verbo "to position" e le guide invasero milioni di scrivanie con la traduzione “posizionare”. "Posizionare”, già esistente in italiano, estendeva i suoi possibili usi a quelli che la nostra lingua consentiva nell’ambito informatico ed economico a tutte le sfere dello scibile. Arrivati i personal computer nelle nostre case e con essi tutte le guide necessarie a usare i prodotti Microsoft, in pochi anni tutti si sarebbero “posizionati” anziché seduti, messi, disposti, collocati, sistemati, sdraiati, appoggiati, stravaccati. Non vi fu più oggetto allocato, dislocato, collocato, messo, posto, riposto, disposto, alloggiato, sistemato che non si potesse “posizionare”, banalmente e massivamente.

Il Silvio nostrano ha poi inventato tutta una galassia di modi di dire, che immancabilmente e supinamente son 
finiti ad articolare discorsi. Ne fece una raccolta e un bel libro Gustavo Zagrebelsky, dal titolo Sulla lingua del tempo presente (Einaudi, Torino 2010).
In men che non si dica, un “sì” o un “no”, argomentati, non servirono più. “Assolutamente” bastò a cacciare il relativismo tipico di una riflessione ordinatrice del pensiero: non foss’altro perché ‘”ab-solutum”, il distacco totale, rende una risposta, ancor prima che apparentemente energica, distante da qualsiasi ragionevole dubbio, e dunque ripensamento. La “crisis” è bandita, viva la certezza: “Piove? Assolutamente!” È chiaro che un “sì” o un “no” suonino ormai mediocri di fronte a un “assolutamente”, da pronunciarsi possibilmente con sorriso grifagno, sicuro di sé e un po’ aggressivo quel tanto che non guasta.
Ma Silvio ci insegnò anche che uno Stato “mette le mani in tasca” e che è per sua natura truffaldino, mentre truffaldina era la gente che dello Stato intanto faceva cosa propria, depauperando dello Stato il senso, proprio in quello strumento democratico di ridistribuzione del reddito in termini di servizi che dovrebbe adoprarsi per un uso oculato delle tasse.
Del resto chi non “è sceso in campo” almeno una volta nella vita, o non “ha messo in campo” una qualche energia o attività o sapere? E allora giù, tutti a trattare la realtà come una partita di calcio nei più reconditi ambiti, dalla politica alla scienza, dall’informale chiacchierata alla pianificazione forestale, qualcuno ha messo in campo qualcosa, passando attraverso quella formula da calcio mercato sempre innovativa per la quale chiunque può inaugurare una nuova stagione della vita “mettendo in campo” se stesso per qualcosa, con quel cipiglio abruptivo e risolutorio del “Ghe pensi mi”.

Ma ogni giorno si impara a parlare, senza saperlo, perché appunto son altri che ci mettono in bocca espressioni con cui leggiamo poi la realtà, una realtà semplificata ad usum delphini se va bene. Ma non va mai bene: la realtà viene fatta leggere a seconda di come si fa parlare il popolo, a seconda di come si vuole che il popolo parli e pensi, perché è con la parola che si pensa, il pensiero è fatto di parole. E il pensiero, attraverso la parola crea una realtà che è giudizio.
Ecco allora in questi tempi sorgere un’altra batteria di parole, un fuoco di fila con cui si va creando una barriera di giudizio, prima che in sede penale per molti, per strada e nelle bocche degli italiani comunemente.
“Terroristi”. “Terrorismo”. “Eversione”. “Anni di piombo”. “Gruppo di fuoco”.
Sono le espressioni con le quali Magistratura e giornalismo han preso a trattare il fenomeno No Tav da qualche tempo.
Dopo aver dileggiato le dichiarazioni pubbliche ripetute in più sedi dal movimento No Tav di intendere perseguire la condotta indicata da personaggi come Ghandi e Mandela (“han scomodato persino Ghandi e Mandela” si leggeva sui quotidiani torinesi), il giornalismo nostrano ha creduto bene che il dileggio e la squalificazione non bastassero, bastando però far eco alla Magistratura che aveva dissotterrato parole e idee tabù, orribili e grevi. 
Dal dizionario (ed. Paravia) dell’insigne linguista Tullio De Mauro leggiamo:
“terrorismo” – “metodo di lotta politica utilizzato da gruppi rivoluzionari o sovversivi che, considerando impossibile conseguire con mezzi legali i propri fini, tentano di destabilizzare o rovesciare l'assetto politico-sociale esistente con atti di violenza organizzata”; ma anche “regime di violenza istituito da un governo per conservare il potere”.
“eversione” – “sovvertimento radicale dell'ordine costituito compiuto con atti rivoluzionari o terroristici”, e anche “abolizione, soppressione spec. di un'istituzione”.
Ora, se le dichiarazioni fatte dal movimento No Tav sono sempre state quelle di perseguire la lotta pacifista e il sabotaggio (afferente alla stessa lotta pacifica, come lo sono i blocchi stradali); se il sabotaggio a cose e non attentati alla persona sono stati eseguiti (e le indagini sono ancora in corso per stabilire chi abbia fatto che cosa), a fronte di una ventennale sordità delle istituzioni e al dileggio degli organi di stampa; se sabotaggio a cose è rimasto circostanziato a un ben preciso territorio in ordine a una ben circostanziata, ancorché complessa, tematica quale è quella della linea Torino-Lyon, il termine “terrorismo” è come minimo fuorviante, fuori luogo, errato, surrettizio e manipolatorio. Crea cioè una realtà altra da quella che il movimento No Tav vive sul proprio territorio e nella propria lotta, per orientare ad arte il giudizio di chi della vicenda sa poco o nulla. In quale misura si attenta alla persona? In quale misura si attenta allo Stato? In quale misura è stato messo in essere un programma di eversione?
È chiaro che passato il termine ”terrorismo”, scrivere di “gruppi di fuoco” è un attimo, lo stesso che un lettore ignaro, o poco più, impiega a focalizzare nel proprio immaginario squadre ben addestrate di guerriglieri armati fino ai denti e pronti a tutto. Perché è naturale che da un “gruppo di fuoco” ci si aspetta che si faccia fuoco, non fosse che “far fuoco” significa “sparare”, e stando alle dichiarazioni pubbliche del movimento, nessuno in Val di Susa è disposto a sparare a chichessia.

La cosa peggiore è che le parole han sempre un peso, e a non soppesare le parole che ci si mette in bocca si finisce per appesantire il proprio eloquio svuotando il cerebro già atrofizzato da tanta pigra mancanza di dimestichezza con la riflessione. Si finisce cioè per credere di esibire un pensiero proprio, originale, senza accorgersi di parlare per voce altrui, con un parlato che assomiglia molto più alla virgola Nike sulle scarpe con cui si fa gratuitamente pubblicità al marchio dopo aver profumatamente pagato il prodotto; solo che ai piedi restano le scarpe, in testa il vuoto. A scorrere forum e commenti agli articoli apparsi ultimamente la parola “terrorismo” e il suo agentivo “terrorista” compaiono in quantità preoccupante. Preoccupante è che la gente comune si faccia un’immagine distorta della realtà, ovvero quella di una lotta popolare che attraverso le parole viene criminalizzata e sbattuta in prima pagina su quotidiani e rotocalchi come si sbatte un delinquente o un mafioso. Eppure, mentre Magistratura e organi di informazione non danno cenno di comprendere appieno le parole della prima definizione che De Mauro dà di “terrorismo” (o forse è proprio perché la comprendono appieno che usano la lingua come arma a loro volta, come non bastasse il manganello dissuasorio), della seconda definizione il popolo valsusino avrebbe molto da dire e molto da raccontare: “terrorismo” - “regime di violenza istituito da un governo per conservare il potere”.

Massimo Bonato 02.09.13

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