Insieme al linguaggio e alla
cottura del cibo, un terzo elemento può annoverarsi nella storia dell’uomo,
come fondante di una civiltà di cui siamo eredi e prosecutori: i muri. All’indomani
del passaggio da raccoglitori e cacciatori ad agricoltori, la difesa del
territorio andò di pari passo con il suo sfruttamento e la sua antropizzazione.
Muri per difendersi dagli
animali, ma ben presto per difendersi da altri esseri umani. Palizzate che si
trasformano in muri di fango e pietre, mattoni, sino alle fortificazioni, gli oppida delle città, i masti medievali,
le torri e i bastioni; muri che cingono fortezze e casematte, ma anche soltanto
cascine o campanili. Muri assediati e muri sorti troppo tardi per subire un
assalto, aggirati come la Linea Maginot, e rimasti ad memoriam.
Muri sorti per tener fuori
qualcuno, o per dividere dall’esterno chi sta dentro, e le due cose non sono l’uno
il contrario dell’altra.
Muri, di Claude Quétel, edito da Bollati Boringhieri ed uscito di
recente, dipana la storia dell’umanità attraverso la storia dei muri da essa
eretti: muri “politici” poiché limitano, dettano autorità, escludono o
includono.
La Muraglia Cinese, colma di
falle, ancor prima che militari, volte a consentire il commercio con popoli considerati
altrimenti e paradossalmente nemici. Il limes
germanico, dissuasore più per la vicinanza di eserciti pronti a intervenire
che per la sua robustezza. Non così il Vallum
Hadriani o il Vallum Antonini,
promesse di una stabilità e una continuità dell’Impero romano che dava segni di
cedimento. Fino al Muro di Berlino, muro con la M maiuscola, moderno, politico
per eccellenza. Quanto almeno quello che scorre lungo la Cisgiordania.
Vi son muri per i quali le
giustificazioni si sprecano: sorti per contenere i flussi emigratori, come tra
Stati Uniti e Messico, o per arginare traffici di droga e delinquenza, salvo
poi creare un ghetto molto simile a quello di Varsavia nella Padova del 2000. Muri
impercettibili fatti di filo spinato che si spostano sempre più in là sino a
creare “riserve” entro cui chiudere nativi. Muri invisibili fatti da strade che
delimitano quartieri appartenenti a una confessione religiosa o a un’altra,
come accade a Belfast o a Derry. Muri di contestazione o del pianto;
commemorativi o sanitari; religiosi o tristemente noti e preservati in ricordo
delle fucilazioni lì avvenute.
Ma vi son muri che non sorgono
per tenere l’altro fuori, se non per tenere gli eguali dentro. E son staccionate,
recinzioni, inferriate o soltanto strade non attraversabili senza esser fermati
e identificati: sono i quartieri privati edificati negli Stati Uniti e
motliplicatisi negli anni a vista d’occhio in tutto il pianeta. Speculari al
ghetto e a esso contrario perché dove esso nasce per rinchiuderci un popolo, i “quartieri
residenziali protetti” servono a proteggersi dal mondo, ancora una volta, con telecamere
e garitte, guardie armate e pattuglie, polizia privata che conduce indagini per
conto proprio. Gated communities in
cui si è un po’ più uguali, tutti forse con la stessa paura dell’altro, e anche
di se stessi e delle certezze incrollabili che potrebbero incrinarsi, a metter
fuori il naso di casa.
Claude Quètel, Muri, Bollati Boringhieri, Torino 2013.
Massimo Bonato 29.05.13
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