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mercoledì 29 maggio 2013

Muri. Un’altra storia fatta dagli uomini

Insieme al linguaggio e alla cottura del cibo, un terzo elemento può annoverarsi nella storia dell’uomo, come fondante di una civiltà di cui siamo eredi e prosecutori: i muri. All’indomani del passaggio da raccoglitori e cacciatori ad agricoltori, la difesa del territorio andò di pari passo con il suo sfruttamento e la sua antropizzazione.
Muri per difendersi dagli animali, ma ben presto per difendersi da altri esseri umani. Palizzate che si trasformano in muri di fango e pietre, mattoni, sino alle fortificazioni, gli oppida delle città, i masti medievali, le torri e i bastioni; muri che cingono fortezze e casematte, ma anche soltanto cascine o campanili. Muri assediati e muri sorti troppo tardi per subire un assalto, aggirati come la Linea Maginot, e rimasti ad memoriam.
Muri sorti per tener fuori qualcuno, o per dividere dall’esterno chi sta dentro, e le due cose non sono l’uno il contrario dell’altra.
Muri, di Claude Quétel, edito da Bollati Boringhieri ed uscito di recente, dipana la storia dell’umanità attraverso la storia dei muri da essa eretti: muri “politici” poiché limitano, dettano autorità, escludono o includono.
La Muraglia Cinese, colma di falle, ancor prima che militari, volte a consentire il commercio con popoli considerati altrimenti e paradossalmente nemici. Il limes germanico, dissuasore più per la vicinanza di eserciti pronti a intervenire che per la sua robustezza. Non così il Vallum Hadriani o il Vallum Antonini, promesse di una stabilità e una continuità dell’Impero romano che dava segni di cedimento. Fino al Muro di Berlino, muro con la M maiuscola, moderno, politico per eccellenza. Quanto almeno quello che scorre lungo la Cisgiordania.
Vi son muri per i quali le giustificazioni si sprecano: sorti per contenere i flussi emigratori, come tra Stati Uniti e Messico, o per arginare traffici di droga e delinquenza, salvo poi creare un ghetto molto simile a quello di Varsavia nella Padova del 2000. Muri impercettibili fatti di filo spinato che si spostano sempre più in là sino a creare “riserve” entro cui chiudere nativi. Muri invisibili fatti da strade che delimitano quartieri appartenenti a una confessione religiosa o a un’altra, come accade a Belfast o a Derry. Muri di contestazione o del pianto; commemorativi o sanitari; religiosi o tristemente noti e preservati in ricordo delle fucilazioni lì avvenute.
Ma vi son muri che non sorgono per tenere l’altro fuori, se non per tenere gli eguali dentro. E son staccionate, recinzioni, inferriate o soltanto strade non attraversabili senza esser fermati e identificati: sono i quartieri privati edificati negli Stati Uniti e motliplicatisi negli anni a vista d’occhio in tutto il pianeta. Speculari al ghetto e a esso contrario perché dove esso nasce per rinchiuderci un popolo, i “quartieri residenziali protetti” servono a proteggersi dal mondo, ancora una volta, con telecamere e garitte, guardie armate e pattuglie, polizia privata che conduce indagini per conto proprio. Gated communities in cui si è un po’ più uguali, tutti forse con la stessa paura dell’altro, e anche di se stessi e delle certezze incrollabili che potrebbero incrinarsi, a metter fuori il naso di casa.


Claude Quètel, Muri, Bollati Boringhieri, Torino 2013.

Massimo Bonato 29.05.13

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