Le
svendite del presidente Carlos Menem e le politiche ultraliberiste caldeggiate
dall’FMI non portarono a un rilancio economico di quella Argentina lasciata
ricca da Perón e taglieggiata dalla dittatura tra il 1976 al 1983, ma portarono
al depauperamento progressivo della popolazione. Un processo di riforma
legislativa consentì infine la fuga di 40 miliardi di dollari in una sola notte,
nel 2001, e fu la bancarotta nazionale.
I cacerolazos riempirono le piazze e nei
telegiornali di tutto il mondo campeggiarono folle al grido di Que se vayan todos! Le fabbriche presero a chiudere a una a una e The Take rese testimonianza del deserto
industriale che venne a crearsi all’indomani della crisi. Operai disperati con
moglie e figli a carico, un mutuo da pagare; storie di disoccupazione,
smarrimento e disperazione. Eppure The
Take fu anche la testimonianza di una rinascita, poiché alla disperazione ben presto
si aggiunse la consapevolezza che gli imprenditori, prima che i battenti delle
fabbriche aprissero agli esecutori fallimentari, avrebbero venduto tutto il
loro contenuto, impianti, macchinari. E sarebbe stata davvero la fine. I
cancelli delle fabbriche vennero giù ben prima, e gli operai tornarono per
presidiare quel che restava. Opposero una strenua resistenza, prima contro le
forze dell’ordine, poi contro la proprietà che avrebbe voluto reimpossessarsi
dei beni, fino a che venne l’era di Nestor Kirchner, impegnato a rinegoziare il
debito con il Fmi, ma anche a concretizzare un forte progetto nazionale in cui
la ripresa industriale era una leva fondamentale.
Ma
non si trattava per gli operai di recuperare soltanto il reddito perduto, si
trattava di recuperare il diritto al lavoro e la dignità del lavoro, il luogo
stesso in cui molti di essi avevano trascorso buona parte dei loro giorni. E a
loro, sin dai primi momenti si fece attorno la comunità sociale, un tessuto
sempre più esteso di adesioni alla loro lotta. Così come avevano chiuso, molte
fabbriche cominciarono a riaprire: la forja San Martín, un impianto di
lavorazione dell’acciaio della provincia di Buenos Aires, la fabbrica di
ceramiche Zanon di Neuquén, la fabbrica tessile Brukmann. In ciascuna è la
forma assembleare a prevalere. In assemblea si decide tutto: i turni, le
mansioni, i salari, la dieta della mensa e gli approvigionamenti, la
produzione, gli acquisti, le contrattazioni e le vendite, le joint venture con
altre fabbriche recuperate. Nascono una dopo l’altra le cooperative
industriali, alle quali fan seguito nel tempo scuole superiori e cliniche per
far fronte alle mancanze dello Stato.
Il 1° maggio è stata l’occasione per contarsi. Oggi,
dopo dodici anni, sono 350 le aziende recuperate in tutto il Paese, stando ai
dati del ministero del Lavoro, con un totale di 25.000 dipendenti, organizzati
attorno all’ormai consolidato Movimiento nacional de fabricas recuperadas por los trabajadores. Il
vicepresidente della Unión productiva deEmpresas autogestionadas, Eduardo Montes, ha dichiarato in un’intervista
con l’agenzia di stampa Télam che se in un primo momento il recupero delle industrie
era avvenuto sulla spinta depressiva della profonda crisi del 2001, in seguito
si venne sempre più a configurare come sostituzione di una incapacità
gestionale dell’imprenditoria.
Il
governo era stato inizialmente colto di sprovvista. Da un lato il padronato si
era affrettato a reclamare il diritto alle proprietà occupate; dall’altro i
lavoratori avevano sin da principio chiesto il riconoscimento giuridico delle
loro occupazioni, perché il lavoro non potesse essere loro espropriato. In
questi ultimi dieci anni, anche il governo si è dotato di norme atte a
garantire la continuazione della produzione nelle fabbriche occupate, ma
soprattutto la tutela dei lavoratori. Sono ora gli stessi lavoratori che
possono chiedere il fallimento di una fabbrica e attraverso questo ottenere,
dall’interno della fabbrica stessa, di entrare in possesso degli impianti come
risarcimento, e riprendere e innovare la produzione. Fabbriche che
prevalentemente appartengono ai settori metallurgico, tessile, grafico e
alberghiero.
Che
la conduzione assembleare, autogestita porti i suoi frutti, è ancora Montes a
sostenerlo: “Molte di queste fabbriche -
dice - dimostrano che avviato il recupero, aumentano la loro produzione e
generano posti di lavoro”.
Massimo Bonato 05.05.13
Qui il documentario di Avi Lewis e Naomi Klein, The Take, su Vimeo
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