Marcin Sacha, fotografo polacco, è essenzialmente un
paesaggista. I suoi paesaggi sono veri, semplici, non ritoccati come egli
stesso tiene a dire. Sono paesaggi morbidi e avvolgenti, nei quali la
delicatezza dei colori e delle luci, dei campi e delle balze, delle morene
cullano l’occhio. Uno sguardo spesso senza orizzonte, che s’incunea tra una
vallata e l’altra, increspa su un colle che non può discendere o allinea a una
a una le scie d’aratura dei campi smossi o si disperde nelle nebbie rarefatte,
nei vapori dei boschi. Un paesaggio che ha del fiabesco quello di Tuskany. Eppure a scorrere velocemente
le fotografie di Tuskany, ma ancor
più del portfolio moravo Morawy o le
dune di Pustynia la geografia si fa
via via da descrittiva a narrativa.
Il paesaggio non è più soltanto ripreso
dallo sguardo così come a una luce appare, come appare in una data ora del
giorno o in una data condizione, non si “parla” di lui. Diviene geometria,
diviene gioco sillabico che s’interrompe come una parola che non si riesce a
pronunciare; linee di demarcazione di probabili corpi umani o forme autonome
che gli spazi paesaggistici ricreano come cosa propria, incidenti nella
linearità dei volumi dolci e flessuosi della campagna. Astrazioni. Astrazioni che
finiscono per tradursi in metafisica vera e propria negli spazi urbani di Kreacje 1, 2, e 3 così come i Nowe in cui i paesaggi urbani di
Cartier Bresson sembrano incontrare Magritte in un’atmosfera al contempo
diradata e compatta, mai luminosa se non di luce riflessa, spesso cupa. La fotografia
di Marcin Sacha non espande lo sguardo disperdendone i punti di riferimento, ma
proietta l’osservatore nella creazione che è il suo sguardo a comporre, come se
disponesse dell’ordine naturale della natura o delle case per riordinarle su
una tela.
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